‘La scrittura è fatta dai gesti dell’idea’ (Mallarmé)
Dal bianco assolto di una superficie in cui segni/tracce/diagonali si intersecano in un ritmo geometrico quasi impercettibile iniziano ad emergere segni ripetitivi, frenetici dalle tonalità diversificate di grigio, di violetto, blu. Segni ripetitivi, angoscianti supportati da qualche vuoto/luce in cui si inseriscono note musicali, tracce di poesia e di scrittura. Una forma ossessiva di liberazione che diventa una sorta di memoria ancestrale.
Fernanda Fedi: la scrittura e la vita
O vivi o scrivi, dice l’antico aforisma latino.
Borges, da parte sua, ha parlato di una scrittura infinita, che immobilizza e rende impossibile la vita: i cartografi della Cina disegnano una mappa del loro territorio così perfetta da richiedere una dedizione assoluta. Non vivono più, registrano la vita. La scrivono, appunto.
Negli ultimi lavori di Fernanda Fedi l’aut-aut non si pone, o meglio si risolve in una sottile disperazione, tra grazia e ossessività. La scrittura diventa un flusso vitale, un battito cardiaco millimetrico, un trasalimento o un tremito.
Non è estranea alla vita, ma anzi è come se volesse catturarne il respiro, le “sconfinate amarezze” (Pascutto), i leggeri colpi di rasoio che ne incidono la pelle.
Così i disegni della Fedi diventano squame, o graffi, o ricami. Diventano stenografie fiamminghe.
Che non siano un dato intellettuale lo dimostra il loro illuminarsi o accendersi di colore.
Compaiono sulle carte gialli improvvisi, rossori e viola dilaganti, chiarori liquefatti. Il bianco e nero della scrittura “razionale” lascia il posto a fasci di luce inaspettata, talora brusca e stridente.
Su queste superfici liquide il segno si posa regolare (regolare nei suoi lievi mormorii, come una litania rosariante o come un pianto senza lacrime sommesso e continuo, che non ha ragione di interrompersi).
L’opera della Fedi non è decifrabile, e non potrebbe esserlo. Della vita si può dire che è non che cosa è. Così la scrittura diventa un’allegoria di se stessa, una maschera dell’espressività.
C’è una delicata coazione a ripetere in questa grafia incerta eppure costante, che formicola sulla superficie. Ma c’è in esse, anche, un tentativo di razionalità, o di ragionevolezza: la scrittura e la narrazione, anche se oscure e misteriose, solo il sintomo di una volontà di esplorare, di capire il flusso vitale.
C’è, ancora, una soave leggiadria nell’inanellarsi dei segni: la decorazione, già lo aveva notato la Scuola di Vienna, vive attraverso la ripetizione, procede per sequenze.
Gli ornamenti segnici di Fernanda Fedi, pur intimamente drammatici (qualcuno ha detto che solo il dolore cerca le parole, la felicità invece è appagata da sé) si offrono alla nostra visione come una mobile trina, bagnata dal colore.
Il ritmo che le pervade non si esprime in suoni. Si esprime in una silenziosa musica della mente.
Elena Pontiggia, giugno 1988
I grigi di Fernanda Fedi: dall’intelletto alla corporeità senziente
Amedeo Anelli
«Il corpo è ciò che non solo sfugge alle mie intenzioni, ma anche mi precede nell’azione» (Paul Ricoeur)
I primi anni Ottanta del Novecento sono un punto di raccordo fondamentale nel percorso artistico di Fernanda Fedi. L’Artista passa dal rigore strutturale, fatto di geometria, colore e luce – luce uniforme e diffusa secondo la lezione di Piero della Francesca e la rivisitazione di Antonio Calderara –, ad una ripetizione segnica insistita, in un “ostinato”, tale da far apparire questi segni come engrammi della mente, sigilli dell’inconscio. Un’urgenza di segno che pare affiorare sotto la spinta di una coazione a ripetere, e tende verso la scrittura, la scrittura di luce, la modularità scardinata dai suoi esiti geometrici. Il ponte “modulante” di questa operazione è costituito dalla serie di opere in grigio qui presentate. Mantenendo ed interiorizzando il tema della luce, si evidenzia la progressiva sparizione quindi del modulo geometrico, ridotto ad un quadrettato sempre più minimale, quadrettato invaso dalla presenza di “colature” di colore nella gamma generalmente dei rossi evocativi di dionisiaci effluvi sanguigni. Molti lavori titolano appunto Calligrammi dionisiaci o più precisamente Dioniso ha vinto, evocando la nota contrapposizione nietzschiana fra apollineo e dionisiaco. Il primo sentito come principio d’ordine di armonia delle forme mentre il secondo come spirito d’ebbrezza di esaltazione entusiastica priva di forma in quanto ordine, simmetria, ordinamento. Non a caso il seguito dei lavori della Fedi tenderanno sempre più ad essere in sé delle grandi partiture musicali di segni e di cifre: una musica muta per gli occhi, grandi rotoli del sé. È un imponente ritorno del lavoro della corporeità senziente e ctonia, sul rigore ideale ormai sentito come gabbia e riduzione: insomma una specie di via verso la liberazione. È questo un viaggio nell’interiorità della pittura in cui il segno ripetuto ed ossessivo diviene anche una sorta di memoria ancestrale, la mano danza un proprio percorso interiore, segue un proprio filo di Arianna e il pieno dei segni, il loro brulicare sulla dominante luminosa dei grigi, afferma una propria forza energetica eccedente e vitale. Questa forza eccedente si placherà nel futuro in un rigore più legato ai valori sensibili ed alle scritture, al fascino segnico, di un’araldica dell’ignoto e dell’alfabeto.
Nei processi di tecnica interna e nella loro realizzazione in azioni ed opere si ha insomma il passaggio dai valori principalmente di ordine e numero dell’intelletto alla mètis, alla sapienza corporea, con il dispiegamento di tutte le sue astuzie e forze, con l’effrazione di ogni senso del limite verso il libero fluire delle forme-segni.
Febbraio 2020